Ariadna, "la più pura", venne piantata in Nasso da Teseo, come noto.
Lì la fanciulla imparò a cavarsela da sola, imparò le gioie della solitudine e la soddisfazione dell'indipendenza.
Non è proprio malaccio la vita, qui, si diceva Ariadna, anche i momenti di tristezza, poverini, hanno un loro perché e io godo anche di loro.
Ariadna venne a sapere di un popolo lontano che chiamava questo sentimento Saudade, e questa parola le piacque, perché esprimeva proprio bene ciò che la fanciulla provava, un misto di nostalgia e di rimpianto per ciò che aveva perso e per ciò che non aveva mai conosciuto.
Ariadna spesso guardava il mare in tempesta, rimanendosene al riparo sulla costa, e aveva Saudade di quelle terre all'orizzonte che desiderava raggiungere e Saudade del porto sicuro che avrebbe dovuto necessariamente lasciare.
La Saudade, infatti, è il sentimento di perdita che si prova sia per ciò che conosciamo che per ciò che sentiamo ignoto, seducente, sfuggente.
Le giornate di Ariadna a volte erano noiose, a volte erano entusiasmanti, a volte così così, ma la ragazza aveva fiducia in se stessa e nel suo futuro, ed era orgogliosa di essere sopravvissuta tanto bene nella solitudine della piccola isola, e di aver approfittato di quell'abbandono come di una possibilità, di averlo trasformato in un incontro con se stessa, col mondo immenso e suggestivo che sentiva di avere dentro, a volte tumultuoso come il mare che bagnava l'isola, a volte calmo e pacifico, rassicurante. Ariadna sentiva una grande risorsa in se stessa, una grande forza, e aveva imparato che tutte le sue paure e le sue angosce erano doni preziosi, campanelli d'allarme rispetto a situazioni che richiedevano accortezza, e allora la ragazza si fermava a ponderare le novità e il da farsi, per non sbagliare. La paura e l'angoscia, allora, - si diceva, stupita e felice della sua riflessione - sono mie amiche e consigliere, non devo fuggirle o temerle! Devo, al contrario, ascoltare i loro consigli. È così che mi sono salvata dal lupo quando ho sentito rumori sconosciuti nel fondo del bosco, la paura mi ha messo le ali ai piedi e sono fuggita.
È così che mi sono salvata dai pirati che sono sbarcati sull'isola e che mi avevano promesso di portarmi via, di riportarmi a casa. L'angoscia che provavo per le loro unghie sporche, per i loro sorrisi sguaiati - l’angoscia di cosa ne sarebbe stato di me - mi ha messo in allarme, mi ha salvata da un sicuro peregrinare per i sette mari, facendo la schiava e la prostituta a vita.
Se mi fossi sforzata di essere più coraggiosa e fossi rimasta dov'ero, senza ascoltare la mia paura, il lupo mi avrebbe raggiunto e sbranato.
Se mi fossi fatta coraggio e avessi accettato il tutto per tutto pur di andarmene da me stessa – da Nasso, si corresse Ariadna scocciata dal lapsus - i pirati mi avrebbero preso in giro, illudendomi di veleggiare verso casa e condannandomi invece a una vita di prigionia.
È importante che io mi fidi della mia paura, e che accetti la mia angoscia, si disse dunque la povera ragazza, che povera adesso lo era davvero, proprio lei che era la figlia di un re e che aveva conosciuto i fasti e il rispetto durante la sua vita a palazzo. Ma questo era prima, prima di conoscere Teseo, prima di seguirlo nel suo viaggio, prima di essere abbandonata.
Era triste, ma se così non fosse stato, Ariadna lo sapeva bene, non ci sarebbe stata Nasso, non ci sarebbe stato mare tumultuoso, non ci sarebbe stata Saudade, non ci sarebbe stata più Ariadna stessa, dilaniata e sbranata dal Minotauro.
Teseo, l’amore, l’illusione, il dolore, l’abbandono, la vita e la morte, la conoscenza del suo mondo interiore, l’amicizia con la paura, la compagnia dell’angoscia, che senso aveva piangere e rinnegare tutto ciò? Era l’unica vita che aveva potuto vivere, ed era molto più di quanto avevano avuto quei ragazzi e quelle ragazze che per anni e anni erano finiti nel labirinto.
Eppure la povertà e la solitudine erano proprio dure. Più che altro, dover badare sempre a se stessa da sola. Ariadna si faceva coraggio, ci provava in tutti i modi, ma a volte si chiedeva se non dovesse ascoltare anche quella paura, la paura di morire da sola, in quell’isola lontana, senza che nessuno portasse la notizia ai genitori, la paura di morire di stenti, di freddo, di inedia. Ci pensava soprattutto nelle sere d’inverno, quando cercava di accendere il fuoco, con la legna sempre troppo bagnata perché le fosse di qualche aiuto nei suoi sforzi. Di solito la raccoglieva così, bagnata dalla pioggia, sepolta sotto mucchi di foglie umide. A volte si bagnava per le sue lacrime, mentre piangeva e piangeva e batteva i denti.
Stanca di combattere contro la natura, la fame e se stessa, una notte particolarmente fredda Ariadna scese sulla spiaggia e guardò il mare in tempesta.
Prima o poi tornerò a casa, si promise, ce la farò.
Ma il giorno dopo il mare si calmò, era una magnifica distesa argentata che si increspava pigramente e veniva a dare bacini gelati e frizzanti ai piedi nudi di Ariadna, incantata e innamorata della sua isola, e dimentica di ogni Saudade di casa.
In giornate come questa spesso qualche vagabondo di mare si spingeva fino all’isola per fare scorta di certi frutti prelibati che vi crescevano, e Ariadna a seconda dell’umore accompagnava gli sconosciuti fino agli alberi nascosti nel fitto della vegetazione e li avvertiva del pericolo dei lupi, oppure si negava a condividerli con chicchesia, improvvisamente gelosa, gelosa di se stessa, dell’isola e dei frutti meravigliosi che essa nascondeva. Allora raccontava loro che erano frutti velenosi, di quei frutti che ti fanno perdere la ragione dopo essersene cibati, e i vagabondi desistevano. Ogni tanto l’aveva colta l’impulso di mandare quegli uomini dritti tra le fauci dei lupi, ma davvero non era il tipo.
E un giorno, dal nulla, venne fuori un vagabondo diverso da tutti gli altri. Ariadna, che negli ultimi tempi mandava via tutti gli altri inventando storie sempre più fantasiose sui frutti, fu invece lieta di offrirglieli. E fu lieta soprattutto che lo sconosciuto tornasse ancora per coglierne.
Tornò anche quando il mare era in burrasca, sembrava che niente potesse tenerlo lontano da Nasso, da Ariadna e dai suoi frutti meravigliosi, e per ricambiare le offrì i suoi: si trattava di un’uva deliziosa, che produceva del vino inebriante e irresistibile, e allora il vagabondo cessò di essere uno sconosciuto per Ariadna e si rivelò in tutto il suo splendore terribile e divino, si rivelò come Dioniso.
Ma allora, si disse ubriaca di felicità la fanciulla, è proprio vero che per ogni Ariadna e per ogni Nasso c’è un Dioniso meraviglioso e seducente, pronto a offrirle il vino dell’allegria, della spensieratezza, il vino della condivisione?
Ariadna si sentiva pronta, dopo anni di solitudine e di conoscenza di se stessa, ad accettare quel vino della condivisione. Dioniso le diceva di amare in lei tante cose, la capacità di cavarsela da sola e al tempo stesso lo sguardo da bambina stanca e ferita.
Ariadna gli confidò l’antico sogno di tornare a casa, e Dioniso si disse pronto a sostenerla. Insieme la vita sarebbe stata meravigliosa. Partirono dunque insieme per Creta e poi, portando Nasso e la meravigliosa esperienza che aveva significato sempre dentro di loro, avrebbero cercato un’isola più grande, un’isola per due.
Difficile dare conto di cosa successe dopo quella decisione. Dioniso, ad esempio, essendo un dio e potendo alterare la realtà a sua convenienza, rettificò che quella non era stata una sua co-decisione, ma un vaneggiamento di Ariadna.
La ragazza, offesa e delusa, iniziò a incalzare il suo dio ricordandogli le promesse fatte, ottenendo come unico risultato il continuo cambiamento della realtà da parte di lui, e la conseguente perdita di punti di riferimento di lei, che quasi impazzì per stare dietro ai desideri e ai cambi di idea di Dioniso.
Ogni qualvolta lei lo metteva alle strette ricordandogli che quelli erano i loro progetti, i sogni di entrambi, che non si era inventata niente, e che aveva lasciato Nasso non certamente PER lui, ma CON lui, e che si aspettava supporto e coerenza da parte sua nel pianificare il da farsi, ecco che lui provvedeva coi suoi poteri sovrannaturali a stravolgere i fatti e a farla sentire un po’ ridicola, una povera piccola mortale isterica ed esaurita.
Guarda cara, le disse lui, mi sa che ci eravamo capiti male, io sono un dio, sono nato dalla coscia di Zeus, io, il tuo piccolo mondo non lo capisco. Se vuoi berti un bicchiere di vino va bene, ma adesso abbassa la voce, spostati un po’, torna sulla tua isola, volevi tornare a casa be’ torna a casa, insomma fai quello che vuoi ma soprattutto levati un po’ dalle palle che fra un po’ parte il Baccanale e io sono ancora qua a discutere con te.
Ariadna era sconcertata. Era questo il suo dio meraviglioso, che l’aveva amata per la sua forza e la sua fragilità? L’angoscia che provava adesso non era un’angoscia amica, consigliera, era più simile alla perdita di una parte di se stessa. Neanche a Nasso, da sola, si era mai sentita così.
Si sentiva ancora forte, certo, ma profondamente ferita dal fatto che il suo Dioniso le rimproverasse mancanza di indipendenza, autonomia, equilibrio, carattere. Proprio a lei, che aveva resistito a Nasso, era scappata dai lupi, aveva sgamato i pirati, si era messa in discussione offrendogli i suoi frutti e bevendo il suo vino… no, non sono pazza, si diceva, è lui che sta cambiando la realtà a ogni mia dimostrazione di evidenza, è lui che non vuole ammettere “sono venuto sulla tua isola perché volevo mangiare i tuoi frutti, qualsiasi altra cosa non mi interessava”.
E una notte, una notte caldissima che le faceva rimpiangere il freddo pungente della solitudine di Nasso, Ariadna si tirò a sedere sul letto e osservò, nell’oscurità vicino a lei, il profilo addormentato del proprio compagno che da tanto tempo ormai sentiva così ostile. Di colpo, ricordò.
Io sono atea.
Accese la luce, e quello che vide le fece ricordare quanto le aveva raccontato tempo prima la sua amica Psiche.
Quale dio, quale meraviglia sovrannaturale, quale dono del destino. Accanto a lei vedeva un uomo, un povero diavolo anzi, forse più superbo ed egocentrico degli altri, forse odiosamente arrogante, prepotente, soprattutto un grande bugiardo, e un grande bluff, ma in sostanza un uomo, e neanche tanto speciale. Un uomo medio.
Ariadna era venuta a vedere il bluff, meglio così. Ci aveva creduto, perché ci aveva voluto credere, e perché così doveva essere. Ora, al posto del dio dell’ebbrezza, dell’allegria, della lietezza, riconosceva un ubriacone, uno sbruffone, un irresponsabile.
Continuava a pensare al suo equilibrio, alle accuse di lui. A volte si vedono i propri difetti e le proprie frustrazioni riflessi negli altri. Capita soprattutto a chi si crede un dio.
Chissà quali esperienze e quali traumi aveva avuto, povero dio detronizzato, per convincerla ad amarlo, confonderla con i suoi continui cambi di scenario, e accusarla infine di non avere il proprio equilibrio.
Nulla sappiamo di Ariadna dopo quella notte, se non che non vide mai più il suo Dioniso.
Ci piace pensare, però, che abbia chiuso con le isole, e che abbia preso il largo, magari scendendo a patti con i pirati, magari imponendosi su di essi, magari semplicemente godendosi il viaggio.
"Cos'è che in noi mente, uccide, ruba?" Georg Büchner, Woyzeck
domenica 27 novembre 2011
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