"Cos'è che in noi mente, uccide, ruba?" Georg Büchner, Woyzeck

domenica 21 febbraio 2010

LA FAME E LA NEVROSI












"Era più o meno il 1532 quando Michelangelo scolpì i Prigioni. Sarebbero dovuti andare a Roma, incastonati nella tomba del papa Giulio II (Giuliano della Rovere), dentro San Pietro in Vincoli. Un monumento maledetto, la cui composizione accompagnò l’artista per tutta la vita. Tra ripicche e rimandi, ritardi, ripensamenti. Ogni volta che litigava col papa se ne tornava a Firenze, e nei ritagli di tempo dipinse la Cappella Sistina. Mise al centro la statua di Mosè (“alla qual statua non sarà mai cosa moderna alcuna che possa arrivare di bellezza, e de le antiche ancora si può dire il medesimo” dice il Vasari), e ai lati avrebbero dovuto esserci queste figure, che chiamava “Prigioni”. Uomini, corpi che si divincolano e si dibattono, che cercano di uscire dalla pietra da cui nascono e che li trattiene.
Michelangelo impiegò un anno a scegliere i blocchi di marmo alle cave di Carrara, ma quando li fece finalmente recapitare in piazza San Pietro non sapeva che farne. Il progetto languiva, i marmi furono sfregiati e infine rubati. I primi Prigioni li scolpì nel 1513, e finirono subito a parigi, offerti da Roberto Strozzi, che li aveva ricevuti in dono da Michelangelo stesso, a Francesco I. Adesso sono al Louvre. Gli altri quattro li fece circa vent’anni dopo, e sono a Firenze, alla galleria dell’Accademia.

Il Prigione detto lo schiavo che si desta, il Prigione detto Atlante, il Prigione detto lo schiavo barbuto, il Prigione detto lo schiavo giovane. Hanno un corridoio tutto per loro, e formano una specie di corteo che annuncia il David. Ma non hanno un nome. Sono identificati per come appaiono, per il modo in cui cercano di divincolarsi, dal fatto che abbiano o meno la barba. Un giorno ho iniziato a pensare a quanto somiglino a quegli immigrati che vediamo avvolti nelle coperte, appena sbarcati da barche inverosimili, dopo viaggi infernali, o addirittura ripescati nel mare. Creature che attraversano il mondo passando attraverso strati assai più duri di quelli che attraversiamo normalmente noi, strati di marmo. Ma che da quella loro miseria mostrano un’energia spaventosa.
Mi ricordo gli occhi di un ragazzo liberiano, salvato da un naufragio. Era insieme a un’altra decina di uomini, giovani, bellissimi, li mostravano al telegiornale avvolti appunto in quelle coperte. Seduti, la schiena poggiata contro un muro, disfatti. Eppure non si aggrappavano alla stoffa, non tremavano. Erano fermi, con quegli occhi accesi, e la coperta come un marmo che li imprigionasse. Quel giorno iniziai a pensare ai Prigioni di Michelangelo in modo diverso.

Avevo sempre immaginato che quelle statue raccontassero un conflitto tra anima e corpo. Una battaglia feroce tra ciò che ti tiene coi piedi per terra e la nostra voglia di volare. Realtà e sogno, quotidiano e utopia. Credevo che parlassero di nevrosi, di lotta furibonda tra l’impossibilità di fare e la necessità di fare. Credevo che tutta l’arte che amavo avesse a che fare con quello che siamo diventati, come se l’umanità avesse avuto una sola fase della sua storia, quella degli psicofarmaci e delle psicopatologie. Che insomma Edipo fosse il primo caso diagnosticato di complesso di Edipo.

Poi sono arrivati anche da noi gli immigrati. L’arrivo degli uomini e delle donne dall’Africa e dall’Europa dell’est è stato come un tassello di tempo diverso inserito nel nostro. Un cronosisma destabilizzante. Sono arrivati mostrandoci come eravamo, cosa viene prima del benessere. Che la parola fame, ad esempio, non significa un desiderio compulsivo di cibo per placare il dolore dell’esser stati poco amati. Non è quell’impulso che precede l’ingozzamento selvaggio e indiscriminato e che è seguito dal vomito. La fame è quando non hai niente da mangiare e se dura parecchio alla fine muori. E altre cose così.
L’immigrazione, oltre a deformare l’aspetto antropologico delle nostre città, sicuramente determinerà un nuovo punto di sguardo. Non potremo non essere influenzati da occhi che vedono la nostra arte senza averne un’esperienza storica e attraverso la loro cultura appunto 'pre-nevrotica'. "
Elena Stancanelli, Firenze da piccola

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Mandarino per nascita e per elezione, a orologeria per necessità. politicamente scorretta, vivo libera da ogni convenzione e religione, tutti i giorni reinvento il mio mondo e ridò la carica al mio trenino a molla